venerdì 29 giugno 2012

Ivo Andric

Il prossimo lunedì 2 luglio alle ore 10.00 presso Spazio Paraggi di Treviso si inaugurerà la Mostra itinerante “Ivo Andric: scrittore e diplomatico”.


Saranno presenti l'Ambasciatore della Repubblica di Serbia in Italia Ana Hrustanovic, il Console Generale della Repubblica di Serbia, Momcilo Milovic e Console Onorario della Repubblica di Serbia per la Regione del Veneto, Loreta Baggio oltre alle autorità locali. Presenterà l'evento il sociologo trevigiano Vittorio Filippi.

La mostra durerà fino al 9 luglio e sarà accessibile dal lunedì al venerdì in orario 16 – 19.30, sabato e domenica dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19.30.

“Infelice come tutti gli artisti. Ambizioso. Sensibile. In breve: ha futuro”. Così appare Ivo Andric agli occhi dei suoi contemporanei nel 1921 e la profezia di successo si sarebbe presto avverata: scrittore, diplomatico, uomo di cultura di respiro internazionale, pur profondamente legato alla sua terra d'origine, Ivo Andric si affermerà come uno dei personaggi di spicco della letteratura europea, affermazione coronata nel 1961 dal premio Nobel per la letteratura per la sua opera più famosa Na Drini cuprija, ovvero Il ponte sulla Drina.

Biografia
Ivo Andric nasce in Bosnia nel 1892. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale, aderisce al movimento irridentista serbo e per questo viene condannato al carcere e al confino. Negli anni seguenti intraprende la carriera diplomatica, soggiornando in diversi Paesi europei: la prima destinazione diplomatica è Roma, presso il Vaticano, a cui seguono Bucarest e Trieste nel 1922. Negli anni successivi si trasferisce a Graz, poi a Marsiglia, a Parigi, a Madrid, a Bruxelles, a Ginevra. Un percorso europeo che arricchisce la cultura cosmopolita di Andric e gli permette di sviluppare, parallelamente alla sua carriera diplomatica, una prestigiosa carriera letteraria. Tra il 1939 e il 1941 è ambasciatore a Berlino, ma tornerà a Belgrado negli anni della guerra, vivendo ritirato e curando la sua opera letteraria come Travnicka hronika (La cronaca di Travnik) e Gospodica (La Signorina). Dopo il Nobel nel 1961, seguono anni di riconoscimenti pubblici ma anche di crescente solitudine per la perdita della moglie. Muore nel 1975. Dopo la sua morte, viene pubblicata l'opera omnia, è istituita la sua fondazione e aperto il museo nell'appartamento dove viveva.

Amo l'aggrovigliamento balcanico e la ex Jugoslavia e cerco cautamente di penetrarlo anche attraverso un approccio letterario, indagando le storie di vita di persone che ancora esistono e di quelle che invece non ci sono più e che magari sono vissute secoli fa: così mi sono fatta l'idea che in qualsiasi essere umano sono presenti “i Balcani”, dato che lottando duramente per racimolare l'indispensabile, l'uomo naturalmente incontra il bisogno di evadere dalla sua miseria per conquistare il superfluo e talvolta arriva persino a credere di avere il diritto di potere su chi è più debole; perde la sua stessa libertà, non obbedendo più alla propria volontà, sopraffatta da passioni dilanianti, con conseguenze a volte devastanti, per l'altro, ma anche per sé stesso. E così nel corso della vita l'essere umano si deve spesso vergognare persino di ciò che di più bello e prezioso possiede, che non può condividere.
Ho appreso la consapevolezza che talvolta è necessario abbandonarsi al corso degli eventi, senza poterli cambiare e senza cercare di influenzarli; che nonostante i nostri più alti ideali talvolta ci ritroviamo soli e non è dato sapere se per scelta o per destino, e anche se proviamo a schermirci con delle maschere questo risulta inutile, al punto di realizzare che non esiste mai limite al peggio.

Già Leonardo da Vinci nel suo Codice afferma che “da Oriente a Occidente ogni punto è divisione”, amara consapevolezza e quasi presagio per tutti gli eventi che si sono poi avvicendati.
Non è certamente un caso che il premio Nobel Ivo Andric abbia particolarmente amato questo genio e abbia inciso proprio questa dedica sull'edizione italiana di un suo romanzo donato a Predrag Matvejevic.

Andric è il primo autore jugoslavo che ho letto e che mi ha appassionata, che mi ha colpita per il suo narrare, lo stile letterario chiaro, sobrio e incisivo, le leggende balcaniche tramandate oralmente dalla poesia popolare.
Egli conosceva a fondo il Paese in cui nacque e visse, la Bosnia, una sorta di Jugoslavia nella Jugoslavia, un territorio in cui per destino gli eventi hanno sempre subito al contempo fusioni, contaminazioni e dispersioni e in cui spesso si preferisce ricominciare tutto daccapo, piuttosto che continuare, in cui pare impossibile conservare quanto è stato acquisito ed è forse più difficile che altrove ammettere errori passati.
Ho molto apprezzato le descrizioni di ambienti miseri, in cui però risaltano le virtù di chi in quegli ambienti ci abita compiendo piccole grandi cose, se non addirittura autentici miracoli: serbi, croati -ortodossi e cattolici con antenati bogomili- musulmani di origine slava, zingari e altri ancora.
Egli rappresenta ciò che per me è Jugoslavia, perché guarda sia ad Oriente che ad Occidente, considera Bisanzio e Roma, senza mai perdere di vista l'Islam; parla di Europa, “Altra Europa”, Balcani, senza privilegiare o preferire nessuno di essi.
Sembra interessarsi più all'anima dei personaggi piuttosto che alle loro storie, descrivendo l'integrità interiore comunque presente anche in un ambiente diviso, in cui nessuno è soddisfatto e pretende di avere di più, se non tutto.
Esterna valori che non conoscono alcun confine, ai quali non serve certamente uno Stato comune.
La Bosnia da lui raccontata appare come una terra unica nel panorama europeo, seppur caratterizzata dall'odio strisciante fra la sue genti.
L'idea della filosofia classica, inevitabilmente soggetta a vari tipi di manipolazioni, per la quale i popoli senza uno Stato proprio non avrebbero accesso alla storia, sicuramente non si presta al suo modo di narrare.
Ci parla infatti del passato senza evocarlo; tiene anzi conto della differenza fra storia stessa e passato, considerando che la maggior parte del passato non è potuto divenire storia. Non tutti gli accadimenti, infatti, lasciano conseguenze significative a cui la storia possa dare un senso e certe parti del mondo non sono nemmeno state sfiorate dalla storia. E' proprio come se “raccontandoci della storia” volesse in qualche modo riabilitare un esistere che non ha potuto inverarsi in essa, come se creasse una coscienza storica, puramente e unicamente letteraria.
Come in Le mille e una notte, che ho potuto rileggere in chiave diversa, Sharazad, simbolo della forza, dell'intelligenza, del fascino della parola e del potere di seduzione che procura il riuscire a generare e conservare vivo l'amore, nonostante tutto.
Andric è memore del passato musulmano e del ruolo di confine tra due mondi e quattro religioni. Da qui sicuramente proviene la sua necessità dominante di “costruire ponti” e di descriverli. Il ponte è inteso come costruzione per gli uomini, tramite per conoscersi ed andare dall'altra parte. Garanzia al senso di continuità e speranza nel futuro.
E come non citare la sua filosofia sulla mentalità totalitaria che trasuda dalla squisita parabola dell'Elefante del Visir? La vendetta non è altro che l'altra faccia dell'odio, veicolata dalla memoria e talvolta può persino colpire l'innocente, assumendo quindi le sembianze della maledizione!
Si può evincere una verità universale, per nulla patetica o romantica, che la morte è la condizione che racchiude in sé il misterioso destino di tutta l'umanità: “il male, la sventura, l'inquietudine fra gli uomini sono elementi stabili e costanti e nulla di tutto ciò può essere cambiato: ogni passo che facciamo ci porta verso la tomba”. Le generazioni scompaiono, gli uomini si riproducono e si ripetono vite simili le une alle altre, di cui si conserva a stento qualche flebile ricordo, qualche narrazione solo talvolta scritta, ma non si può dimenticare che la nuova vita deriva da un “miscuglio fra vecchio e nuovo”, pertanto la speranza non deve mai essere accantonata.
Questi sono in sintesi gli spunti di lettura e riflessione che ho potuto cogliere.
Andric ha “gettato un ponte” fra la mia cultura e la sua, fra il suo Paese ed il mio, fra il mio spirito occidentale e quello slavo.
Ha reso mia la sua convinzione che solo l'unità del suo Paese possa far prevalere, nonostante tutto, l'amore sull'odio, che attraverso il tempo trascorso e la storia di quei popoli, tanto diversi fra loro, siano comunque nati anche dei legami reciproci, la comprensione fra gli uni e gli altri, il buon senso, l'amore e la generosità.
E inevitabilmente mi chiedo cosa avrebbe provato e come avrebbe reagito Andric se avesse potuto vivere le tragiche vicissitudini avvenute proprio poco dopo la sua scomparsa.
Forse nemmeno avrebbe cercato di spiegare come, sia da una parte che dall'altra, l'odio abbia potuto a tal punto prevalere sull'amore, la limitatezza dell'animo umano sulla generosità e come il male proveniente da chissà dove, dal passato o dalla storia, abbia potuto rivoltarsi contro il suo stesso buon senso a discapito di ogni possibile comprensione.
Ma probabilmente, e questo è il messaggio che vorrei ricevere, preferirebbe sperare ancora e continuare a “donarci ponti”.

giovedì 8 settembre 2011

Altra Europa 2011

Agosto 2011 è arrivato e finalmente si riparte. 


In appena due ore siamo a Skopje e nel pomeriggio già sul Kameni Most. 
Lo scenario rispetto all'anno precedente è stravolto, la città appare un cantiere aperto ed una statua bronzea troneggia: si tratta di un gingantesco guerriero a cavallo di 30 tonnellate per 30 metri di altezza, che rappresenta Alessandro Magno, voluto dal premier Nikola Gruevski al fine di "scaldare gli animi a livello internazionale". E' stata un'azienda italiana a realizzare l'opera.


Ci fermiamo in Macedonia un paio di giorni e decidiamo di visitare Krushevo, graziosa cittadina etnica, molto vivace, dove si trova anche il “tempio” dedicato a Tose Proeski, santificato alla pari di nane Teresa.
Dobbiamo incontrare degli amici a Mavrovo e sostiamo volentieri a Tetovo, che è di strada. 




Nei balconi di ogni casa sono appese lunghe trecce in foglie di tabacco, realizzate e appese dalle donne secondo la tradizione.
Nonostante il grosso e caotico centro sia prettamente moderno non mancano interessanti edifici di architettura islamica.


Vicino al fiume Pena si trova la  Moschea Dipinta, conosciuta come Moschea Aladzha, autentico gioiello del 1459, costruita con le donazioni di due nobildonne musulmane - Hurshida e Mensure - la cui tomba ottagonale si trova all’interno del giardino. 
Di forma cubica, è interamente decorata con motivi floreali e geometrici, sia all’esterno che all’interno. Gli affreschi e i decori in legno, in ottime condizioni, risalgono al 1833 quando l’edificio fu ricostruito ed ampliato da Abdurahman Pasha. 
Alla sinistra dell’ingresso della stanza della preghiera si trova l’ufficio del custode, dove i turisti possono trovare un paio di pagine ciclostilate in inglese, che raccontano la storia di questo vecchio edificio. 


Poco distante visitiamo il Baba Aratati tekke, un monastero di Dervisi fondato nel 1538 che per oltre centro anni ha ospitato la setta islamica di Bektashi ed è il più interessante restato in Europa. 
All’interno delle mura in pietra vi è un vasto complesso di edifici risalenti al XVIII secolo, tutte le costruzioni sono originali e ben conservate: giardini fioriti, sale di preghiera, saloni da pranzo, alloggi tradizionali ed una splendida fontana marmorea all'interno di un padiglione ligneo. 
Nel cimitero antistante sono custodite le tombe di diversi santi Bektashi. 
Nel 1992 un gruppo di Dervisi Bektashi riprese possesso del monastero, ma nell'agosto del 2002 alcuni membri armati di un gruppo musulmano sunnita invasero il complesso, trasformandone uno degli edifici in moschea ed esponendo fotografie e materiali celebranti l'esercito albanese di liberazione del Kossovo (UCK). Alcune strutture subirono gravi danni e sono tuttora in fase di ricostruzione.



Ci dirigiamo a Galicnick per il pranzo, 25 chilometri a sud di Manrovo ed attraverso una strada secondaria saliamo rapidamente all’interno di un fitto bosco, dove si alternano tratti dritti e tornanti stretti e ripidi. 
In 5 chilometri si raggiungono i 1500 metri. Il panorama cambia radicalmente, è lunare. 
La strada che prima attraversava il bosco, sale dolcemente sino a quota 1700 in mezzo a grandi pascoli alpini, dove la vegetazione è tundra. 
Cammin facendo alcune baracche di pastori che vendono il galicki kaskaval, tipico formaggio della zona. 
Ci troviamo in una sorta di museo all'aperto, dove l’architettura delle abitazioni, i costumi, la cucina, le tradizioni degli antichi villaggi delle montagne macedoni restano gelosamente custoditi. Le vecchie abitazioni con i tetti di pietra scura, i muri che uniscono alle pareti di legno blocchi di roccia bianca sono intatti. 
E' un luogo per gran parte dell’anno silenzioso e letargico, ma il 12 luglio, San Pietro, arriva il momento del risveglio; in tale occasione infatti il villaggio inizia ad animarsi. E’ il giorno del “Matrimonio di Galicnik”, un matrimonio in abiti tradizionali che rappresenta l’evento più importante della piccola comunità locale. La celebrazione, di tradizione secolare, attira persone da ogni parte della Macedonia, ai parenti degli sposi si uniscono turisti e curiosi. Nella notte precedente alle nozze, gli uomini e le donne del villaggio si muovono, impugnando fiaccole, dalla casa dello sposo a quella della sposa e durante il matrimonio, gli uomini ballano il Teskoto, danza che simboleggia il superamento delle difficoltà della vita. 

Giungiamo a Pristina e gli albergatori, ormai amici, ci invitano ad una festa di fidanzamento.
La giovanissima coppia, molto cordiale, parla italiano.


Ci rechiamo a Decani per la visita del monastero e con grande sorpresa troviamo un monaco siciliano che ci fa da dettagliata e preziosa guida per più di due ore, che volano.
Questo luogo ci ha lasciato un profondo, indelebile segno. Visoki Decani infatti è un importante monastero della Chiesa Ortodossa Serba in Kossovo, nei pressi di Pec. La sua chiesa medievale è la più grande dei Balcani e contiene il più vasto affresco bizantino conservato ad oggi: fondato in un castagneto dal re serbo Stefano Decanski nel 1327, ufficialmente tre anni dopo. Quando nel 1331 il re morì, fu sepolto nel monastero, che divenne il suo santuario. 
La costruzione venne proseguita da suo figlio Stefano Dusan fino al 1335, ma la decorazione parietale fu ultimata nel 1350. 
La chiesa, dedicata a Cristo Pantocratore, è in blocchi di marmo rosso-violaceo, giallo e onice e fu eretta da mastri costruttori sotto la guida del frate francescano Vito da Cattaro. 
Si distingue dalle altre chiese serbe contemporanee per le sue dimensioni imponenti e il suo aspetto tipicamente romanico, con famosi affreschi che comprendono all'incirca un migliaio di ritratti, ripercorrono tutti gli episodi principali del Nuovo Testamento. 
Notevoli risultano l'iconostasi lignea originale del XIV secolo, il trono dell'egumeno e il sarcofago di re Stefano, interamente scolpito. 
Dal 2004 il monastero è riconosciuto dall'UNESCO patrimonio dell'umanità  e attualmente è presidiato e protetto dalle Nazioni Unite e dalla KFOR.


A Pec pranziamo lautamente con appena due euro a testa, mentre nella carsia un sapiente artigiano mi ripara la borsa, che a casa mi avrebbero consigliato di buttare.


Ritorniamo a Gracianica, dopo un anno, per una breve visita della cittadina. 
Incontriamo casualmente una scrittrice, che vedendoci forse spaesati o incuriositi da qualcosa ci offre aiuto: ha scritto un libro, tradotto in italiano ed edito da Città del Sole che ci riserviamo di leggere al più presto, Ciò che eravamo.
Radmila Todic Vulic è serba, lavorava a Pristina negli uffici della municipalità, ma poi espropriata di ogni bene è stata trasferita a Gracianica lontano dalla famiglia, che ora vive a Nis e che può riabbracciare soltanto nei fine settimana.


Rientrati in Macedonia trascorriamo qualche piacevole giorno trastullandoci sul lago di Ohrid.
Il clima è piacevole, caldo ma asciutto.
Abbiamo l'onore ed il piacere di conoscere i coniugi Starova e Luan a Struga ci racconta dei suoi bellissimi accattivanti romanzi, soprattutto di quelli non ancora tradotti in italiano e di quelli non ancora pubblicati. 
Lo faccio sorridere raccontandogli che leggendo Il tempo delle capre inizialmente mi ero prefigurata una Skopje davvero invasa da capre e pastori...


In suo onore facciamo il tour del lago, visitando anche la sua città d'origine, Pogradec, uno dei luoghi turistici più eleganti dell'Albania, proprio a causa della sua posizione sul lago dalle acque cristalline, habitat naturale del pesce koran, simile alla trota. Qui la produzione del vino e l'agricoltura sono tradizione in ogni casa.


Gli accenniamo alla nostra intenzione di rivisitare la "greca" Bitola, l'elegante città dei consoli, così denominata essendo centro di notevole importanza sotto il dominio ottomano, quando ospitava un gran numero di sedi diplomatiche delle potenze europee ed ipso facto ci mette in contatto con Kaliopa, sua ex allieva e console onorario di Francia.
La incontriamo in consolato. E' una persona deliziosa, con un nome che le calza a pennello, quello della musa della letteratura appunto, che lei, appassionata ed esperta di Paul Valery, tanto ama; valacca di origine, ma ortodossa sposa di un croato, il cui figlio ha dovuto stabilirsi in Belgio per potersi realizzare professionalmente. E questo la dice lunga sulla diaspora balcanica. 
Pranziamo insieme al ristorante Cous-cous, consumando piatti greci: il gestore ha sposato una francese che insegna all'università cittadina.


Il rientro in patria si avvicina e optiamo di raggiungere Skopje, da dove è prevista la successiva partenza per l'Italia, attraverso la vecchia strada che da Stuga passa per Debar; è più lunga, ma tranquilla e molto panoramica, immersa in foreste secolari e splendidi scenari di montagna.
Debar infatti  è una piccola cittadina circondata dall’omonimo lago e dai monti Desati, Stogovo e Jablanca, che dista dal confine con l’Albania meno di dieci chilometri ed è nota soprattutto per i suoi importanti centri termali. Le sorgenti sono concentrate presso la vicina località di Banjishte e forniscono circa 70 litri d'acqua termale al secondo, alla temperatura di 40 gradi centigradi. Nei centri termali vengono curati reumatismi, malattie della pelle ed ipertensione.

Rientriamo a Venezia in pullman e siamo gli unici italiani.
C'è chi ha l'accento veneziano e lavora nell'edilizia, chi quello vicentino e fa l'artigiano, dei Rom così discreti che sembrano "farsi piccini" per rendersi invisibili agli occhi degli altri compagni di viaggio; perfino un paio di ragazzi che fanno i cuochi nella capitale, proprio dei romani d.o.c., il cui volo seppure già pagato è saltato e che si vedono costretti ad affrontare un viaggio decisamente più lungo, doppiamente costoso dovendosi peraltro giustificare coi titolari diffidenti per il ritardo nel ritorno al lavoro.
La musica turbofolk ascoltata in sordina dall'autista, che assomiglia moltissimo a Kemal Monteno e a sentirselo dire da degli italiani appare imbarazzato ma lusingato e talvolta qualche intenso profumo di cibarie, ci ricordano che siamo partiti dai Balcani. 
Tuttavia non percepiamo quella vivacità ed allegria che contraddistinguono invece questi luoghi: ognuno è ormai già immerso nei propri pensieri e si prepara ad affrontare la quotidianità, spesso problematica se non addirittura crudele, sicuramente più di quanto non fosse previsto al momento seppur difficile dell'emigrazione. 
Una ventina di ore attraverso quattro frontiere: Macedonia, Serbia, Croazia e Slovenia, con controlli sempre più serrati e puntigliosi via via che si arriva in “Europa”. 
E quello che viene da chiedersi è alle porte di quale Europa bussino i Balcani e dove sia quella UE tanto ambita, ma spesso più che altro ostile se non addirittura nemica.

mercoledì 9 giugno 2010

Knin, 15 anni dopo


Za dom! Spremni!” (“Per la patria! Pronti!”) sono queste parole che la mia mente rievoca, mentre viaggio verso Knin.
Za dom!”  grida un soldato e i commilitoni rispondono in coro “Spremni!”. E' il secolare grido di guerra croato, noto come slogan ustascia e considerato fuorilegge ai tempi della Jugoslavia di Tito, ma è anche l'incipit di una canzone patriottica degli anni Novanta, volta a far breccia nell'opinione pubblica occidentale e a conquistarne l'appoggio. L'ha scritta Marko Perkovic, originario della Zagora Dalmata, che poi partecipa alla guerra di liberazione croata del 1995.
Un centinaio di chilometri da Zadar, circa due ore di marcia, nel cuore della Krajina, esteso altopiano sassoso, a tratti verdeggiante, qualche agglomerato di case, alcune nuove, altre in costruzione o restaurate alla meno peggio, molte ancora inabitabili, distrutte dalla guerra e con i segni evidenti di un passato scomodo ed indimenticabile. Cinquantacinque chilometri a nordest di Sibenik, la città ebbe grande importanza geostrategica nel passato e più recentemente ricoprì particolare importanza nazionale per l'industria ed il commercio.
Le bellezze paesaggistiche sono notevoli, corsi d'acqua, cascate ed una rigogliosa vegetazione  contraddistinguono il parco naturale del fiume Krka, mentre resti archeologici testimoniano la presenza di antichi insediamenti.
Alle porte della città sosta per il caffè, e soprattutto per curiosare la cottura di un agnello allo spiedo, che si svolge per strada, ma che appare triste e senza l'entusiasmo che ci si potrebbe aspettare. E' Pasqua, ma la chiesa austera ed antica è chiusa, infatti svetta il vessillo serbo. Volgendo lo sguardo altrove l'altra chiesa, nuova e scintillante, dove si stanno affollando giovani eleganti che con riti comunque orientaleggianti si apprestano a recitare preghiere di preludio alla messa. 
E' successo anche il contrario, ma l'effetto che questa contrapposizione etnica provoca è sempre e comunque agghiacciante.
Knin infatti è la città che in quattro anni è stata ferocemente e brutalmente svuotata ben due volte dei suoi abitanti.
Nel 1991 inizia l'esodo croato, ad opera dell'Armata Popolare di Milan Martic, presidente dell'autoproclamata  Repubblica Serba di Krajina, condannato nel 2007 dal Tribunale Internazionale per la ex-Jugoslavia a 35 anni di carcere per crimini contro l'umanità e campagne di pulizia etnica: sono 80mila i fuggitivi.
Nel 1995, in pochissimi giorni, l'Operazione Olujia (Tempesta) spazza via il microstato serbo. Ante Gotovina, con il tacito favore degli USA e della Nato, conduce l'offensiva. I profughi, serbi questa volta, sono 2-300mila, secondo la stima di Giacomo Scotti. Il generale Gotovina resta latitante per anni, protetto, pare, dai vertici croati e perfino da quelli vaticani. Accusato di crimini di guerra, per i quali si professa innocente, nel 2005 viene estradato all'Aia e il suo processo inizia nel 2008.
A testimoniare gli splendori del passato sul monte Spas si erge l'imponente e maestosa fortezza turco/veneziana, perfettamente conservata e decisamente in contrasto con la restante architettura della città. 
A partire dal 1991 le bande paramilitari serbe,  a dispetto di qualsiasi convenzione di diritto internazionale, terrorizzano e costringono con la violenza le genti di etnia nemica alla fuga. Esse adibiscono proprio questo luogo a base e a prigione.
Kapetan Dragan, serbo immigrato in Australia è uno di loro. Rientrato nella patria natia con lo scoppio della guerra, fonda e comanda il gruppo dei Berretti Rossi. Nel 2006 viene arrestato dalle autorità australiane, che però inizialmente non ne consentono l'estradizione in Croazia, convinte che le sue idee politiche non consentirebbero lo svolgimento di un processo equo. Il 30 marzo scorso però la Suprema Corte australiana ribalta questa sentenza ed il 13 maggio, mentre si trova in fuga dall'Interpool, viene acciuffato.
Ad agosto del 1995, nel giorno della riconquista croata, la fortezza viene insignita di un’immensa bandiera e Tudjman, alludendo alla realizzazione della pulizia etnica effettuata, esclama: "Finalmente il tumore serbo è stato strappato dalla carne croata!".
Tuttavia Knin non appare in buona salute, bensì come una città fantasma, distrutta e senza energia elettrica, dove pochi dei croati espulsi nel 1991 rientrano, sostituiti da altri profughi, provenienti soprattutto dalla Bosnia. 
Pochissimi sono anche i serbi, soprattutto anziani:  soltanto a partire dalla fine del 1999 è loro concesso di rientrare, ma come apolidi e seguendo un iter burocratico difficile e scoraggiante.
Dopo quindici anni, Knin è una città a stragrande maggiorata croata, anche se proveniente da un bizzarro scambio di popolazioni tipico dell'ex-Jugoslavia. 
Non ci sono più industrie, la disoccupazione è devastante, nonostante la popolazione sia la più giovane di tutta la Croazia (circa il 40% degli abitanti nel 2004 avevano meno di trenta anni). E da nodo ferroviario di importanza strategica nazionale quale era, sì è ridotto a binario morto.
Così si spiega come qui, più che in qualsiasi altro posto della ex Jugoslavia si percepisca un sentimento di sconfitta, disorientamento, fors'anche di apatia. 
Probabilmente bisognerebbe dunque tenere un po' più conto della situazione della Krajina quando si valuta di portare la Croazia nell'Unione Europea, perché Croazia non è soltanto quella nota e ambita della costa, con belle città turistiche come Rijeka, Split o Dubrovnik, e soprattutto  bisognerebbe prima portare qui un po' di Europa, a redenzione da tanta tristezza.

giovedì 21 gennaio 2010

Capatina in Foresta Nera e dintorni

29 dicembre. Il clima è mite e sono già sveglia, nonostante l'ora per me insolita; sono le 5 del mattino e mi trovo in viaggio verso la Foresta Nera.
Abbiamo a disposizione soltanto pochi giorni, ma prevedibilmente molto intensi, visto che visiteremo luoghi densi di cultura e paesaggisticamente ricchi - peraltro sicuramente adatti alla stagione - che non ho ancora avuto l'opportunità di conoscere.
L'hotel designato ai pernottamenti si trova in una posizione strategica, non molto distante dalle mete che ci siamo prefissati, nel Baden-Wurttemberg e precisamente ad Oberharmersbach - cioè “la terra degli orsi” - che qui pare trovino un habitat naturale, ma che non incontreremo, visto che si tratta del loro periodo di letargo.
Ci attende un intero giorno di marcia, quindi è bene iniziare la giornata con qualcosa di corroborante ed è in territorio austriaco che ci fermiamo per la colazione.
Croissant e caffè: un'unione particolare e prelibata che proprio in un autogrill di frontiera assumono un sapore significativo, con un retrogusto di storia e filosofie antiche e diverse.

Correva infatti l'anno 1683 quando gli “Infedeli” tentarono per la seconda volta di conquistare Vienna - ci avevano già provato, con esito negativo, nel 1529 - assediandola per due mesi. I turchi tentarono di penetrare nella capitale asburgica attraverso gallerie scavate nottetempo, ma i fornai viennesi, sentendo rumori sospetti provenienti dal sottosuolo sventarono l'attacco. A difesa di Vienna arrivò re Giovanni di Polonia, che costrinse gli assalitori a fuga precipitosa. Nei loro accampamenti furono reperiti alcuni sacchi di caffè, che, non essendo tostato e presentando un colore verdastro, inizialmente fu scambiato per mangime da cammelli, rischiando di finire nel Danubio. Fu Kolschirzky, un polacco residente a Vienna, ad accorgersi di cosa realmente si trattasse e successivamente aprì il primo caffè, inteso come locale, dando il via alla fortuna dei caffè viennesi.
Ai panettieri fu chiesto invece di creare un dolce che rimanesse a futura memoria della vittoria della cristianità ed un certo Vendler creò una brioche a forma di mezzaluna, ad indicare quella mezzaluna presente sui vessili nemici. Scelse un nome provocatorio ed ironico, croissant, cioè crescente, visto che dopo la batosta subita la mezzaluna turca cominciava a divenire calante: qualcosa tipo “turco, attento che ti mangio!”.

Non saprei preferirne uno, fra i luoghi raggiunti, perchè tutti presentano specifiche particolarità e di tutti ho interiorizzato qualcosa, nella speranza di poterli ritrovare, con più calma e dedicando maggiore attenzione ad ognuno di essi, magari in satagioni diverse, cogliendo quindi sfumature e provando emozioni differenti.
Mi limiterò pertanto a fissare nel ricordo quanto ho potuto comprendere, procedendo secondo l'ordine di visita.

Strasburgo si trova sulle dolci colline alsaziane, fra i monti Vosgi ed il Reno. Questo nome significa crocivia, infatti è una città con identità binazionale e biculturale, tradizioni latine e germaniche e proprio in virtù di questo è stata scelta quale sede del Parlamento europeo. Ospita una prestigiosa università, dove Goethe studiò legge.
Sui tetti è facile scorgere i nidi delle cicogne, tipiche del luogo, per le quali viene fatta una campagna di salvaguardia.

Un'intera zona della città è stata dichiarata patrimonio dell'umanità, si tratta della Grand Ile ed è da qui che iniziamo la suggestiva visita della città.
Percorriamo piazze, aree pedonali e attraverso vie gremite di case, negozi e botteghe - rigorosamente a graticcio - giungiamo alla maestosa ed imponente cattedrale di Notre Dame.
E' un autentico e spettacolare capolavoro gotico, edificato nell'arco di più secoli. Nella facciata occidentale la guglia raggiunge un'altezza di ben 142 metri, mentre la sua gemella, che doveva ergersi a sud, non è mai stata realizzata.
Le vetrate creano una luce particolare, persino in una giornata grigia ed invernale.
L'organo è dorato e coloratissimo, e l'orologio astronomico è un'autentica particolarità: grazie ad un sofisticato meccanismo interno del 1842 scandisce ancora lo scorrere del tempo e alle 12,30 batte quotidianamente il mezzogiorno solare.

Gengenbach è un delizioso paesotto della Foresta Nera, dove da dodici anni nel periodo prenatalizio il palazzo municipale si trasforma in una grande attrazione, diventando il più grande calendario dell’Avvento al mondo.
Dal 30 novembre al 23 dicembre, infatti, durante un quotidiano rituale che avviene puntualmente alle ore 18, una delle 24 finestre del palazzo viene aperta. I visitatori - ben 120 mila nel 2008 - provengono da ogni dove per poter partecipare all'evento e per ammirare tale calendario, con le sue luci, le decorazioni e la musica in sottofondo. Gli anni scorsi le finestre municipali sono state addobbate da vari rinomati artisti ed illustratori di libri.
Quest’anno, sulla facciata in stile classico, abbiamo potuto ammirare 24 fantastici disegni tratti dal “Libro dei canti” del settantasettenne illustratore tedesco Tomi Ungerer.
Nei pressi del municipio un caratteristico mercatino di Natale pomeridiano, e all’interno del Palazzo Lowenberg una mostra su Tomi Ungerer, con tutte le sue affascinanti e originali illustrazioni.

Friburgo si estende fra la pianura del Reno e le colline della Foresta Nera nel luogo più caldo e soleggiato della Germania, ricco di vigneti pregiati.
Ospita un'antica e prestigiosa università (fondata nel 1457), che la rende una città vivace e gremita di giovani.
Originali i caratteristici ruscelli (Bachle) che attraversando le vie del centro storico donano un tocco inimitabile alla città e che ci accompagnano fino al Munster, la cattedrale in stile squisitamente gotico.

La sua pregevole torre campanaria è alta 116 metri ed è il simbolo cittadino: in essa sono situate 19 campane, dal peso complessivo di 27,240 chili - fra esse una delle più antiche di Germania, la Hosanna-Glocke, del 1258.
Bellissime le vetrate e particolari i numerosi “mostruosi” doccioni, parzialmente ancora in fase di restauro dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Sarebbe stato sicuramente emozionante poter assaporare la celestiale musica profusa da più di mille canne attraverso i ben quattro organi presenti in cattedrale, che possono essere suonati assieme o singolarmente.
Intorno al Munster si raccoglie la città vecchia, con il suo mercato, ricco di profumi, colori ed una moltitudine di splendidi edifici, di diverse epoche. Notevoli le 2 porte cittadine medievali, il municipio – composto da due edifici: vecchio e nuovo – l'antica dogana ed il palazzo.

Nell'aria c'è profumo di vino caldo, che abbinato ai gustosi e tipici panini con salsiccia si rivela un'autentica delizia, veramente adatta alla nostra visita, che giunge fino alla collina del castello, dove la vista è incantevole.

Triberg, altra deliziosa amenità della Foresta Nera, è la capitale degli orologi a cucù: qui si trova il più grande orologio in legno del mondo, una casa intera dall'originale e caratteristica sembianza di orologio.

E' anche un importante centro climatico, famoso per le magnifiche cascate alte 163 metri, le più alte della Germania, che purtroppo non sono visitabili in inverno. Durante la bella stagione è consigliata una loro visita, raggiungendole con una passeggiata di circa mezz’ora nel bosco, magari fra gli scoiattoli che regnano nella foresta e si avvicinano ai turisti in cerca di cibo.
Passeggiando nel paese si possono ammirare le bellissime pareti delle case pitturate in modo artistico, ed i negozi che offrono souvenir tipici, specialmente orologi.
Un Babbo Natale perennemente arrampicato all'esterno di un'abitazione ed una slitta disegnata sul muro stesso, ci ricordano che qui si vive in atmosfera natalizia praticamente tutto l'anno.

Costanza si trova a sudovest della Germania ed è una città prevalentemente tedesca, che si affaccia sull'omonimo lago, ma alcuni suoi quartieri sono già in territorio elvetico.
Il fiume Reno, scorrendo lungo il lago stesso, divide in due la città. Noi visitiamo la zona a sud del fiume, dove c'è la città vecchia, confinante con la Svizzera, mentre non riusciamo a visitare le sue belle e famose isole.
Quello che colpisce di questo luogo pittoresco e romantico è la tranquillità che lo pervade.

Nonostante si tratti di una città universitaria e di una popolare meta turistica, i ritmi di vita appaiono come rallentati.
Il lago è circondato da colline verdeggianti e da vigne che gli donano un aspetto suggestivo.
Numerosi sono gli edifici ed i monumenti di interesse storico, in primis il Munster, alcune chiese e torri – una delle quali indica il luogo su cui sorgeva l'antico ponte medievale sul Reno.
Fra la cattedrale ed il Reno percorriamo vicoli e stradine e ci troviamo nella parte del Basso Castello, dove ci sono gli edifici più vecchi e la piazza del mercato.
Costanza fu la città natale di Ferdinand von Zeppelin (1837-1917), famoso generale e progettista di dirigibili; ce lo ricorda un monumento a lui dedicato nel parco vicino al porto - mentre la sua ex abitazione è ora un lussuoso hotel-ristorante.
Un'altra statua più recente è posta all'entrata del porto. Si tratta di Imperia, una famosa cortigiana ferrarese, che ci ricorda gli aspetti meno pii del Concilio di Costanza (1414-1418). Ella, rappresentata piuttosto formosa ed in abiti succinti, regge con le mani papa Martino V e l'imperatore Sigismondo. Il primo venne eletto durante il concilio, estromettendo i tre papi in competizione. Il secondo era in carica durante il concilio e rappresenta il potere secolare. Entrambi sono nudi, ad eccezione dei simboli del loro potere.

Un viaggio vissuto intensamente istante per istante, dunque, come previsto, ma superiore alle aspettative, nonostante il tempo decisamente umido, anche se con temperature sempre clementi.
Giorni piacevoli, che ci hanno permesso di staccare dalla quotidianità, di fare nuove amicizie e conoscere realtà diverse da quella locale, che resterammo nel nostro cuore.
Giorni non esclusivamente turistici, ma di viaggio, che ci hanno consentito, per dirla con Dante, di divenire un po' più del mondo esperti.

mercoledì 25 febbraio 2009

Riječki Karneval 2009


Generalmente non amo partecipare ad eventi dove l'affollamento di gente sia vasto, ma quest'anno mi sono casualmente e piacevolmente trovata al Carnevale di Rijeka.

Complice un tempo atmosferico propizio e primaverile, come non succedeva da tempo, ho potuto godermi la giornata conclusiva di un periodo allegro che qui è denominato “la quinta stagione”, essendo diverso da ogni altro dell'anno; un periodo caratterizzato da un dilagante stato di insolita follia, in cui prevalgono il rovesciamento del quotidiano e gli eccessi.
Non a caso infatti, motto del 2009 è stato: “Sii quel che ti pare e vieni al Carnevale di Fiume!”.
La ventiseiesima edizione quest'ultima, una manifestazione carnevalesca internazionale annoverata tra le più importanti a livello mondiale, molto festosa e frequentata, iniziata il 23 gennaio con l'elezione della Regina del Carnevale e la cerimonia della consegna delle chiavi della città, culminata il 22 febbraio con la sfilata dei carri allegorici e di 10mila maschere che hanno allietato all'incirca 150mila spettatori, fra i quali molti turisti provenienti da ogni dove. Insomma, si è trattato di uno spettacolo coinvolgente, che ha visto la maggior parte dei partecipanti ben camuffati e mimetizzati tra le “maschere ufficiali” in una particolare atmosfera armonizzata da un melange di sgargianti colori, festosi canti e danze, profumate e golose cibarie tipiche, che si è protratto magicamente fino a notte fonda.

Questa manifestazione non è che l'epilogo di un tempo di preparazione alla Quaresima, molto sentito in tutta l'area del Quarnaro, dove si continuano a coltivare le tradizioni rituali antiche e sono assai radicati gli usi e i costumi locali.
Fra gennaio e febbraio in molti paesi si accendono falò sacrificali per bruciare il “pust” (per esteso “mesopust”), un fantoccio accusato di essere colpevole per ogni vizio e magagna personale e sociale, che subisce un processo farsesco e viene condannato al rogo in vista della purificazione generale e per allontanare la malasorte.
Di buon auspicio in questi giorni è anche la presenza degli scampanatori, ben allenati omoni che vagano di villaggio in villaggio per giornate intere, propiziando una veloce fine dell'inverno e lo sbocciare della primavera.
Sono maschere con caratteristiche diverse a seconda della provenienza, che rappresentano esseri infernali, morti, spiriti, le forze legate al sottosuolo insomma, spaventose, ma capaci di favorire il risveglio della terra.
Qui sono denominati Zvončari e indossano campane, che vengono agitate per produrre un particolare ritmo musicale, diverso e distintivo per ciascun gruppo, ma sempre molto festoso.
I campanacci sono infatti benaugurali, legati al bestiame e servono ad allontanare presenze ostili. Per questa ragione alcune maschere assumono la sembianza di animali, indossando pelli ribaltate di pecora. Altre si distinguono dai cappelli rivestiti da fiori di carta colorata e altre ancora si ornano il capo con nastri variopinti, tutti simboli primaverili, che in una sorta di rito di fertilità indicano l'auspicio di un'annata propizia e feconda.

Inaspettatamente quindi, ma assolutamente positivamente ho assaporato una piccola straordinaria nuova esperienza, il Riječki Karneval appunto, che mi ha sicuramente arricchita interiormente e che possibilmente vorrei ripetere ed approfondire.

giovedì 12 febbraio 2009

San Valentino


La mia preferita fra le leggende che spiegano perché San Valentino sia considerato il patrono degli innamorati è quella dei colombini.
Da sacerdote Valentino coltivava personalmente il suo giardino e permetteva ai bambini di accedervi per giocare. Ma un giorno fu incarcerato a vita e il giardino rimase chiuso. Pensava continuamente ai suoi bambini, tristi, non avendo più dove stare spensierati. Fu così che per un misterioso prodigio due dei piccioni viaggiatori che aveva allevato sfuggirono al custode, raggiunsero le sbarre della sua cella e presero a tubare fortemente. Riconoscendoli, il sacerdote li prese, li accarezzò e poi legò al collo di uno un sacchettino a forma di cuore contenente un biglietto e a quello dell'altro una chiavetta. I piccioni, rincasati, furono accolti con gioia. La chiavetta riaprì il giardino che presto fu ripopolato dai festosi pargoli; sul biglietto, che il custode lesse ai fedeli, appositamente radunati all'esterno del giardino, c'era scritto: “A tutti i bambini che amo... dal vostro Valentino”.

In quest'epoca postmoderna o ipermoderna che preferir si voglia, in cui poliamore e “forme di amore diverso” dilagano, in cui i never married sono molti più che in passato (in Veneto i celibi sopra i 24 anni sono ormai il 27% e le nubili il 18%), credo sia decisamente appropriato festeggiare l'amore in senso lato, piuttosto che quello classico e romantico al quale siamo forse stati abituati sin da bambini, quello cioè delle fiabe che terminavano sempre con con l'happy end, con la fatidica frase “...e vissero felici e conteni...”.
Del resto non sappiamo cosa succedesse in realtà dopo la fase iniziale di innamoramento fra la bella fanciulla ed il suo principe azzurro, visto che la storia qui finiva.
Ritengo tuttavia che i bambini di oggi, sulla base talvolta di dolorose esperienze, di rotture famigliari e persino di ambigue e magari sgradevoli ricostituzioni, non si lascino più abbindolare da una fantasia fiabesca di tal specie.
Del resto sin da tempi remoti l'amore non è sempre stato un idillio, basti pensare ai nostri progenitori Adamo ed Eva, che hanno dato il via ad una serie interminabile di catastrofi.

Spulciando fra i miei ricordi di coppie famose ho notato, infatti, che quelle felici sono prevalentemente fantastiche, fumettistiche, come “Orazio e Clarabella”, un cavallo ed una mucca umanizzati, eternamente fidanzati, che incarnano valori ed ideali degli Stati Uniti di un secolo fa. Oppure mi sovviene il cartone che racconta di “Lilli e il Vagabondo”: la bellissima storia di una cagnetta viziata e coccolata, che viene improvvisamente privata delle attenzioni dei padroni a causa del loro neonato; per gelosia fugge, finisce nelle sgrinfie dell'accalappiacani, ma viene salvata dal randagio Biagio, che poi la aiuta a salvare il neonato da un gigantesco topo, guadagnandosi entrambi la possibilità di convolare felicemente a vivere a casa dei padroni di Lilli.
Non posso però evitare di citare Goethe, eccelso e romanticissimo cantore del più nobile amore, ma uomo che persino nella vecchiaia tanto soffrì innamorandosi di una minorenne.
Ci sono poi amori bellissimi, perfino platonici e sublimati, come quello di Dante, che fanciullo si innamorò di Beatrice al punto di rischiare a sua volta la morte quando precocemente la perse e di renderla immortale attraverso la sua opera letteraria. Forse memore del suo grande dolore egli colloca Paolo e Francesca all'inferno, ma eternamente insieme. Francesca fu indotta con l'inganno a sposare uno storpio, fratello proprio di quel Paolo in compagnia del quale, cercando castamente conforto, fu sorpresa dal marito, che li unì per sempre nell'abbraccio della morte.
Legato agli inferi è anche un altro amore, mitologico, non realmente vissuto, ma altrettanto meraviglioso e suggestivo; mi riferisco ad Orfeo ed Euridice. Orfeo, poeta e musico inestimabile, commosse a tal punto gli dei da ottenere che la sua innamorata Euridice, morta per scampare ad Aristeo, follemente desideroso di possederla, fosse riportata in vita, a patto di non voltarsi mai per vederla durante il terribile tragitto da percorrere per ritornare alla terra. Ma ciò non fu possibile: Orfeo preoccupato per l'amata non resistette e la bella Euridice morì per la seconda volta, risucchiata dalle tenebre, ma ancora innamorata di Orfeo, che la perse definitivamente proprio per eccesso d'amore.
Forse anacronistico appare l'amore di Ulisse e Penelope, ma penso che se nella coppia ci fosse sempre almeno “una Penelope” probabilmente le rotture di coppia non esisterebbero. Penelope aspetta pazientemente per anni il ritorno di Ulisse che, a causa dell'intrinseca natura umana, si lancia inevitabilmente in viaggi avventurosi, per tornare a farsi leccare le altrettanto inevitabili ferite riportate e viene comunque accolto amorevolmente, nonostante tutto.
Ma neanche nella mitologia c'è sempre il lieto fine e gioia. Ad esempio Paride, che insignì Afrodite del titolo di “Miss Olimpo” e in cambio ottenne che gli fosse garantito l'amore della donna più bella al mondo, Elena, sottraendola al marito Menelao per sposarla a sua volta e renderla notoriamente Elena di Troia.
Spesso quindi l'amore è piuttosto la risposta a banali pulsioni e passioni effimere, piuttosto che un sentimento alto e nobile. A tal proposito, e concludo questa mia lista di coppie famose che sarebbe invece lunghissima, ricordo Poppea e Nerone. Poppea voleva essere ad ogni costo imperatrice e riuscì a destare la passione di Nerone che per lei arrivò persino ad uccidere la propria madre, che lo ammoniva nei confronti dell'amata, e la rese la sua potente e crudele sposa.

Sembrerebbe che gli amori felici non esistano, a giudicare dagli episodi citati e dunque ci sarebbe forse poco da festeggiare nei prossimi giorni.
L'amore è indubbiamente un sentimento complesso e se viene idealizzato troppo finisce inevitabilmente per deludere.
Non va però demonizzato, essendo il motore della vita e la fonte principale di serenità per qualsiasi essere umano, a prescindere dalla durata, dall'aspetto e dalle sfaccettature che può presentare, a patto che l'elemento fondante ne sia la gratuità. E' inutile amare aspettandosi di essere assolutamente ricambiati, dare per ricevere; e non importa chi e come si ama, visto che la felicità scaturisce e dipende proprio da un dono incondizionato.
Ben venga pertanto la festa di San Valentino a suggellare un positivo flusso di sentimenti, emozioni e persino di denaro, visto che attraverso lo scambio di oggetti è possibile fissare il ricordo di momenti gradevoli, per riviverli successivamente attraverso il ricordo e dato che l'aspetto materiale-consumistico dell'evento, in questo periodo di crisi economica, potrebbe essere utile nei confronti del mercato, ma potrebbe persino aiutarci a riconquistare un po' di fiducia nella nostra capacità d'acquisto, con conseguenti ripercussioni positive sul nostro modo di vivere.
Largo quindi a sogni e speranze e regali, del resto: “chi vuol esser lieto sia, del doman non v'è certezza”.

martedì 27 gennaio 2009

Per sognare ancora


Pomeriggio del 30 dicembre, fa quasi buio, il clima è tiepido e sono circondata da una vivace tonalità di suoni, colori e profumi, da una vitalità tranquillamente disordinata, inconsueta.
Sono un po' frastornata, avendo iniziato questa lunga giornata all'alba, con partenza dal Marco Polo, per affrontare una nuova, quasi improvvisata avventura.
Ho appena percorso, forse troppo distrattamente, la via principale del suk di Damasco, il bazar al coperto più grande al mondo, secondo soltanto a quello di Istambul e davanti a me, alle porte della moschea degli Omayyadi si stanno svolgendo concitate manifestazioni pro Palestina.
Mi guardo attorno incuriosita, con occhio vago, ingordo cioè di tutto quanto mi circonda; incrocio lo stupendo sguardo chiaro e accattivante di un ragazzo che mi sorride, perché passando ho calpestato la bandiera israeliana, che lui ha disegnato a bella posta, e io ricambio ignara... e questo essere ignari è forse la sola cosa che ci accomuna e che gli procura un evidente compiacimento e simpatia nei miei confronti, non potendo comprendere che io non ho ancora esattamente capito dove mi trovo.
Le parole dell'italiano che mi cammina a fianco “ma cosa hai fatto” rimbombano improvvise nella mia testa e la sua rapida spiegazione mi graffia l'anima catapultandomi nella realtà.
Mio Dio, ma dove sono capitata! Perché mi sono imbarcata in questa, seppur piccola, impresa!
Forse era meglio se come avevo pensato chiedevo un passaggio a qualche amico emigrato in Italia e raggiungevo Belgrado per festeggiare il capodanno fra trg Republike e Kalemegdan.
Sono solo dei flash che balenano tuttavia dolorosamente nella mia testa sembrando eterni ed immutabili, che però ora mi fanno gustare maggiormente un viaggio intenso e meraviglioso, destinato a concludersi dopo soli otto giorni, proprio lì, da dove è partito, nel suk di Damasco: dopo la visita alla Moschea degli Omayyadi, uno dei principali luoghi al mondo del culto musulmano, con uno splendido kebab e sorseggiando un delizioso tè alla menta.
Con uno spirito non proprio propizio, quindi, mi accingo ad intraprendere questo cammino.
Mi sento male all'idea di tutte le ore di pulmino che mi attendono e decido che le trascorrerò documentandomi il più possibile attraverso la lettura del materiale abbondantemente arraffato qua e là prima di partire.
Scopro che il nome Syria è di derivazione greca, ma che un tempo era più diffusa la forma araba, Soria, di cui ormai rimane traccia soltanto nella denominazione “gatto soriano”, visto che il nostro comune gatto di casa era qui assai diffuso allo stato selvatico.
Ma non intendo certamente continuare con descrizioni di questo tipo, o col raccontare pedissequamente il tour, poiché certi dati sono facilmente reperibili attraverso svariate fonti ben più autorevoli e complete, e neppure intendo cercare di imporre al lettore un vissuto, seppur meraviglioso, talmente denso da non essere ancora già completamente interiorizzato.
Voglio tuttavia provare ad abbozzare un piccolo souvenir, traendo almeno qualche piccola curiosità dal mio carnet de voyage e condividerla con gli amici più cari.
Ho potuto godevolmente constatare, ad esempio, come la cucina araba, saporita, raffinata ed assolutamente equilibrata, abbia decisamente influenzato le cucine di tutti i paesi mediterranei.
Con la conquista saracena della Sicilia è sbarcata in Italia la pasta secca, e poi cosa sarebbe la nostra famosa pizza se non un pane arabo (pita) condito con la fantasia partenopea!
Le svariate ed appetitose salse, onnipresenti sulle imbandite tavole siriane, sono proprio all'origine dell'ispirazione e rielaborazione da parte dei grandi chef francesi.
Lo zafferano? Passi la paella valenciana, ma bisogna sapere che persino il risotto alla milanese affonda le proprie radici nella cucina araba, visto che sono stati gli Spagnoli, durante i due secoli della loro dominazione a portare lo zafferano a Milano, a loro volta influenzati dall'occupazione araba della penisola Iberica.
La carne di ovino, poi, così diffusa anche nei Balcani, vanta l'unicità di non diventare nociva neppure se mangiata marcia. Allo stesso modo il baklava resiste molto bene al caldo ed è assai nutriente: pare sia una ricetta risalente addirittura all'VIII sec. a.C. e diffusa, grazie a marinai e mercanti, in diverse varianti, in tutta l'area mediorientale e balcanica.
Più recente la diffusione del caffè turco: le prime caffetterie sarebbero nate alla Mecca nel 1500, per poi giungere a Costantinopoli, in tutto l'impero turco, a Damasco, sbarcando a Venezia nel 1720, con la nascita del celebre caffè Florian.
Non ho invece ricordo di aver degustato il tè alla menta al di fuori del mondo arabo, neppure nei Balcani, e mi chiedo come mai, dato che qui risulta essere la bevanda principale, l'unica a dissetare il viaggiatore anche in pieno deserto e persino a poterlo riscaldare se il clima si facesse improvvisamente rigido, proprio com'è capitato a noi, che abbiamo avuto il privilegio di sperimentare una Siria inaspettatamente fredda e, anche se brevemente, spolverata di neve.
Questa bibita in un certo senso rappresenta il fil rouge del viaggio, avendola sempre bramata e consumata continuamente, quasi a scandire un tempo che via via si accorciava.
Ad esempio ricordo Aleppo, considerata la più antica città del mondo, la più a lungo continuativamente abitata fin da tempi remoti, dove immediatamente all'esterno della medina, dopo esserci soffermati nel caravanserraglio ed aver visitato il vecchio bazar rutilante di oggetti in preziosa filigrana, sete e broccati, ci siamo improvvisati nell'impegnativa arte della contrattazione coi rinomati mercanti del quartiere cristiano; poi, sul far della sera ci siamo infine rifocillati con uno squisito, profumatissimo tè rigorosamente alla menta, al suggestivo lume di candela, visto che la corrente elettrica non è un bene tanto diffuso e scontato in certe zone del mondo.
Oppure durante la nostra ultima serata, prima del rientro in patria.
Non era preventivamente programmato, ma abbiamo deciso di recarci, dopo “l'ultima cena”, in un locale tipico per degustare del tè e per sapere qualcosa sulla famosa danza orientale, una delle più antiche danze al mondo, che simula la fertilità e l'origine della vita mediante movimenti ondulatori del ventre.
Con piacevole sorpresa invece, abbiamo assistito ad uno spettacolo diverso, forse ancora più coinvolgente di quello ambito, che io fino a quel momento conoscevo soltanto attraverso le parole cantate dal mitico Franco Battiato: quello dei dervisci tourneur.
Essi sono discepoli di alcune confraternite islamiche sufi, alla ricerca dell'ascesi salvifica e durante il loro difficile cammino spirituale sono chiamati a distaccare l'animo dalle passioni mondane.
Non a caso in persiano ed arabo “darwish” significa “povero” e in lingua farsi “cercatore di porte”. Essi vivono infatti in mistica povertà alla ricerca del passaggio fra il mondo materiale e quello paradisiaco. Si tratta in pratica di saggi appartenenti a comunità monastiche nelle quali acquisiscono la trasmissione dei misteri attraverso una antichissima danza sacra. Chi è ammesso a tale esercizio riceve un insegnamento speciale che richiede una lunga preparazione con tecniche molto raffinate. Sapienti monaci addestrano i discepoli per anni, impartendo loro esercizi che li vedono assolutamente immobili per svariate ore, mentre effettuano particolari operazioni mentali in un determinato ordine, per poter raggiungere finalmente la capacità di roteare nella danza sufi, che, tramandata di generazione in generazione, equivale quindi ai libri in cui leggere gli antichi misteri.
La danza turbinante esposta pubblicamente è soltanto una forma incompleta rispetto a quella prettamente religiosa, ma è comunque molto coinvolgente. Si riesce ad intuire come il derviscio roteando rappresenti nello spettacolo un particolare esercizio interiore, in totale coordinazione fisica ed equilibrio mentale, ed accelerando costantemente la frequenza del ritmo di lavoro rappresenti la cosiddetta “Comunione con Allah”. Anche se talvolta i dervisci sono soltanto dei danzatori che inscenano spettacoli turistici sanno indubbiamente donare agli spettatori sensazioni forti ed emozionanti e soprattutto possono far riflettere su una fondamentale differenza fra come si viva la religione ad Oriente, rispetto ad Occidente. Qui infatti il corpo è il punto di partenza, la religione assume un carattere più fisico: in questa parte di mondo si sviluppò la cosiddetta religione del “pensiero”, mentre ad Occidente prevalse quella fondata sulla Fede, ovvero sul “sentimento” e forse è proprio da questa differenza che nascono tante e vaste incomprensioni fra i popoli.
E sulla scia di questi pensieri si è praticamente concluso questo viaggio siriano, nella moschea degli Omayyadi, visitando la tomba dove si venera la testa di San Giovanni Battista.
Si narra che durante un soggiorno a Roma Erode Antipa intrecciò una relazione con la cognata Erodiade, conducendola poi con sé in Galilea per sposarla. Fu un vero scandalo, essendo la cosa proibita dalla legge mosaica, tanto più che Giovanni predicando rimproverava tale illecita relazione. Il re allora lo fece arrestare, ma si oppose alle richieste della moglie che lo voleva morto. Tuttavia durante una festa la figlia di Erodiade, Salomè, si esibì in una danza talmente gradita ad Erode da indurlo a giurare di darle in premio qualsiasi cosa ella avesse chiesto. La giovane donna volle la testa di Giovanni Battista su un piatto d'argento e la ottenne perché il patrigno non poté venir meno al giuramento fatto. Così da allora il Battista è noto anche come Decollato.
La cosa più triste è che tale scempio, come troppo spesso avviene, fu dettato da motivi futili, semplicemente da una insana passione che Salomè, invaghita e respinta, nutriva per Giovanni.
Il viaggio volge ormai al termine, dunque, e dovrei forse provare lo stesso sottile fastidio che mi accompagnò all'inizio di questa avventura, ma il mio spirito risulta come rinnovato, arricchito da tante, tantissime cose, è ormai più esperto e mi rendo conto che nonostante tutto la vita continua sempre ad andare avanti, il che deve per forza significare che il bene è sempre destinato a trionfare sul male, che esiste indubbiamente qualcosa che, da sempre, muove e che da senso al mondo, a Oriente come ad Occidente e quel qualcosa, qualsiasi cosa sia è la stessa, ovunque e per chiunque.
E davanti all'ultimo tè fumante, che sorseggio ancora più lentamente del solito, come per cercare inutilmente di rallentare l'inesorabile scorrere del tempo, mi sorge spontaneo ed inaspettato un particolare sorriso: mi rendo conto per la prima volta che il nostro tour operator ha un nome bellissimo ed assolutamente attinente ai miei pensieri: Sharazad, come la protagonista delle fiabe della mia infanzia, Le mille e una notte, che ora rileggo in chiave diversa.
Sharazad, infatti, è proprio il simbolo della forza, dell'intelligenza, del fascino della parola e del potere di seduzione che procura il riuscire a generare e conservare vivo l'amore, nonostante tutto.

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