La mostra durerà fino al 9 luglio e sarà accessibile dal lunedì al venerdì in orario 16 – 19.30, sabato e domenica dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19.30.
“Infelice come tutti gli artisti. Ambizioso. Sensibile. In breve: ha futuro”. Così appare Ivo Andric agli occhi dei suoi contemporanei nel 1921 e la profezia di successo si sarebbe presto avverata: scrittore, diplomatico, uomo di cultura di respiro internazionale, pur profondamente legato alla sua terra d'origine, Ivo Andric si affermerà come uno dei personaggi di spicco della letteratura europea, affermazione coronata nel 1961 dal premio Nobel per la letteratura per la sua opera più famosa Na Drini cuprija, ovvero Il ponte sulla Drina.
Biografia
Ivo Andric nasce in Bosnia nel 1892. Negli anni precedenti la prima guerra mondiale, aderisce al movimento irridentista serbo e per questo viene condannato al carcere e al confino. Negli anni seguenti intraprende la carriera diplomatica, soggiornando in diversi Paesi europei: la prima destinazione diplomatica è Roma, presso il Vaticano, a cui seguono Bucarest e Trieste nel 1922. Negli anni successivi si trasferisce a Graz, poi a Marsiglia, a Parigi, a Madrid, a Bruxelles, a Ginevra. Un percorso europeo che arricchisce la cultura cosmopolita di Andric e gli permette di sviluppare, parallelamente alla sua carriera diplomatica, una prestigiosa carriera letteraria. Tra il 1939 e il 1941 è ambasciatore a Berlino, ma tornerà a Belgrado negli anni della guerra, vivendo ritirato e curando la sua opera letteraria come Travnicka hronika (La cronaca di Travnik) e Gospodica (La Signorina). Dopo il Nobel nel 1961, seguono anni di riconoscimenti pubblici ma anche di crescente solitudine per la perdita della moglie. Muore nel 1975. Dopo la sua morte, viene pubblicata l'opera omnia, è istituita la sua fondazione e aperto il museo nell'appartamento dove viveva.
Amo l'aggrovigliamento balcanico e la ex Jugoslavia e cerco cautamente di penetrarlo anche attraverso un approccio letterario, indagando le storie di vita di persone che ancora esistono e di quelle che invece non ci sono più e che magari sono vissute secoli fa: così mi sono fatta l'idea che in qualsiasi essere umano sono presenti “i Balcani”, dato che lottando duramente per racimolare l'indispensabile, l'uomo naturalmente incontra il bisogno di evadere dalla sua miseria per conquistare il superfluo e talvolta arriva persino a credere di avere il diritto di potere su chi è più debole; perde la sua stessa libertà, non obbedendo più alla propria volontà, sopraffatta da passioni dilanianti, con conseguenze a volte devastanti, per l'altro, ma anche per sé stesso. E così nel corso della vita l'essere umano si deve spesso vergognare persino di ciò che di più bello e prezioso possiede, che non può condividere.
Ho appreso la consapevolezza che talvolta è necessario abbandonarsi al corso degli eventi, senza poterli cambiare e senza cercare di influenzarli; che nonostante i nostri più alti ideali talvolta ci ritroviamo soli e non è dato sapere se per scelta o per destino, e anche se proviamo a schermirci con delle maschere questo risulta inutile, al punto di realizzare che non esiste mai limite al peggio.
Già Leonardo da Vinci nel suo Codice afferma che “da Oriente a Occidente ogni punto è divisione”, amara consapevolezza e quasi presagio per tutti gli eventi che si sono poi avvicendati.
Andric è il primo autore jugoslavo che ho letto e che mi ha appassionata, che mi ha colpita per il suo narrare, lo stile letterario chiaro, sobrio e incisivo, le leggende balcaniche tramandate oralmente dalla poesia popolare.
Egli conosceva a fondo il Paese in cui nacque e visse, la Bosnia, una sorta di Jugoslavia nella Jugoslavia, un territorio in cui per destino gli eventi hanno sempre subito al contempo fusioni, contaminazioni e dispersioni e in cui spesso si preferisce ricominciare tutto daccapo, piuttosto che continuare, in cui pare impossibile conservare quanto è stato acquisito ed è forse più difficile che altrove ammettere errori passati.
Ho molto apprezzato le descrizioni di ambienti miseri, in cui però risaltano le virtù di chi in quegli ambienti ci abita compiendo piccole grandi cose, se non addirittura autentici miracoli: serbi, croati -ortodossi e cattolici con antenati bogomili- musulmani di origine slava, zingari e altri ancora.
Egli rappresenta ciò che per me è Jugoslavia, perché guarda sia ad Oriente che ad Occidente, considera Bisanzio e Roma, senza mai perdere di vista l'Islam; parla di Europa, “Altra Europa”, Balcani, senza privilegiare o preferire nessuno di essi.
Sembra interessarsi più all'anima dei personaggi piuttosto che alle loro storie, descrivendo l'integrità interiore comunque presente anche in un ambiente diviso, in cui nessuno è soddisfatto e pretende di avere di più, se non tutto.
Esterna valori che non conoscono alcun confine, ai quali non serve certamente uno Stato comune.
La Bosnia da lui raccontata appare come una terra unica nel panorama europeo, seppur caratterizzata dall'odio strisciante fra la sue genti.
L'idea della filosofia classica, inevitabilmente soggetta a vari tipi di manipolazioni, per la quale i popoli senza uno Stato proprio non avrebbero accesso alla storia, sicuramente non si presta al suo modo di narrare.
Ci parla infatti del passato senza evocarlo; tiene anzi conto della differenza fra storia stessa e passato, considerando che la maggior parte del passato non è potuto divenire storia. Non tutti gli accadimenti, infatti, lasciano conseguenze significative a cui la storia possa dare un senso e certe parti del mondo non sono nemmeno state sfiorate dalla storia. E' proprio come se “raccontandoci della storia” volesse in qualche modo riabilitare un esistere che non ha potuto inverarsi in essa, come se creasse una coscienza storica, puramente e unicamente letteraria.
Come in Le mille e una notte, che ho potuto rileggere in chiave diversa, Sharazad, simbolo della forza, dell'intelligenza, del fascino della parola e del potere di seduzione che procura il riuscire a generare e conservare vivo l'amore, nonostante tutto.
Andric è memore del passato musulmano e del ruolo di confine tra due mondi e quattro religioni. Da qui sicuramente proviene la sua necessità dominante di “costruire ponti” e di descriverli. Il ponte è inteso come costruzione per gli uomini, tramite per conoscersi ed andare dall'altra parte. Garanzia al senso di continuità e speranza nel futuro.
E come non citare la sua filosofia sulla mentalità totalitaria che trasuda dalla squisita parabola dell'Elefante del Visir? La vendetta non è altro che l'altra faccia dell'odio, veicolata dalla memoria e talvolta può persino colpire l'innocente, assumendo quindi le sembianze della maledizione!
Si può evincere una verità universale, per nulla patetica o romantica, che la morte è la condizione che racchiude in sé il misterioso destino di tutta l'umanità: “il male, la sventura, l'inquietudine fra gli uomini sono elementi stabili e costanti e nulla di tutto ciò può essere cambiato: ogni passo che facciamo ci porta verso la tomba”. Le generazioni scompaiono, gli uomini si riproducono e si ripetono vite simili le une alle altre, di cui si conserva a stento qualche flebile ricordo, qualche narrazione solo talvolta scritta, ma non si può dimenticare che la nuova vita deriva da un “miscuglio fra vecchio e nuovo”, pertanto la speranza non deve mai essere accantonata.
Questi sono in sintesi gli spunti di lettura e riflessione che ho potuto cogliere.
Andric ha “gettato un ponte” fra la mia cultura e la sua, fra il suo Paese ed il mio, fra il mio spirito occidentale e quello slavo.
Ha reso mia la sua convinzione che solo l'unità del suo Paese possa far prevalere, nonostante tutto, l'amore sull'odio, che attraverso il tempo trascorso e la storia di quei popoli, tanto diversi fra loro, siano comunque nati anche dei legami reciproci, la comprensione fra gli uni e gli altri, il buon senso, l'amore e la generosità.
E inevitabilmente mi chiedo cosa avrebbe provato e come avrebbe reagito Andric se avesse potuto vivere le tragiche vicissitudini avvenute proprio poco dopo la sua scomparsa.
Forse nemmeno avrebbe cercato di spiegare come, sia da una parte che dall'altra, l'odio abbia potuto a tal punto prevalere sull'amore, la limitatezza dell'animo umano sulla generosità e come il male proveniente da chissà dove, dal passato o dalla storia, abbia potuto rivoltarsi contro il suo stesso buon senso a discapito di ogni possibile comprensione.
Ma probabilmente, e questo è il messaggio che vorrei ricevere, preferirebbe sperare ancora e continuare a “donarci ponti”.
Non è certamente un caso che il premio Nobel Ivo Andric abbia particolarmente amato questo genio e abbia inciso proprio questa dedica sull'edizione italiana di un suo romanzo donato a Predrag Matvejevic.
Andric è il primo autore jugoslavo che ho letto e che mi ha appassionata, che mi ha colpita per il suo narrare, lo stile letterario chiaro, sobrio e incisivo, le leggende balcaniche tramandate oralmente dalla poesia popolare.
Egli conosceva a fondo il Paese in cui nacque e visse, la Bosnia, una sorta di Jugoslavia nella Jugoslavia, un territorio in cui per destino gli eventi hanno sempre subito al contempo fusioni, contaminazioni e dispersioni e in cui spesso si preferisce ricominciare tutto daccapo, piuttosto che continuare, in cui pare impossibile conservare quanto è stato acquisito ed è forse più difficile che altrove ammettere errori passati.
Ho molto apprezzato le descrizioni di ambienti miseri, in cui però risaltano le virtù di chi in quegli ambienti ci abita compiendo piccole grandi cose, se non addirittura autentici miracoli: serbi, croati -ortodossi e cattolici con antenati bogomili- musulmani di origine slava, zingari e altri ancora.
Egli rappresenta ciò che per me è Jugoslavia, perché guarda sia ad Oriente che ad Occidente, considera Bisanzio e Roma, senza mai perdere di vista l'Islam; parla di Europa, “Altra Europa”, Balcani, senza privilegiare o preferire nessuno di essi.
Sembra interessarsi più all'anima dei personaggi piuttosto che alle loro storie, descrivendo l'integrità interiore comunque presente anche in un ambiente diviso, in cui nessuno è soddisfatto e pretende di avere di più, se non tutto.
Esterna valori che non conoscono alcun confine, ai quali non serve certamente uno Stato comune.
La Bosnia da lui raccontata appare come una terra unica nel panorama europeo, seppur caratterizzata dall'odio strisciante fra la sue genti.
L'idea della filosofia classica, inevitabilmente soggetta a vari tipi di manipolazioni, per la quale i popoli senza uno Stato proprio non avrebbero accesso alla storia, sicuramente non si presta al suo modo di narrare.
Ci parla infatti del passato senza evocarlo; tiene anzi conto della differenza fra storia stessa e passato, considerando che la maggior parte del passato non è potuto divenire storia. Non tutti gli accadimenti, infatti, lasciano conseguenze significative a cui la storia possa dare un senso e certe parti del mondo non sono nemmeno state sfiorate dalla storia. E' proprio come se “raccontandoci della storia” volesse in qualche modo riabilitare un esistere che non ha potuto inverarsi in essa, come se creasse una coscienza storica, puramente e unicamente letteraria.
Come in Le mille e una notte, che ho potuto rileggere in chiave diversa, Sharazad, simbolo della forza, dell'intelligenza, del fascino della parola e del potere di seduzione che procura il riuscire a generare e conservare vivo l'amore, nonostante tutto.
Andric è memore del passato musulmano e del ruolo di confine tra due mondi e quattro religioni. Da qui sicuramente proviene la sua necessità dominante di “costruire ponti” e di descriverli. Il ponte è inteso come costruzione per gli uomini, tramite per conoscersi ed andare dall'altra parte. Garanzia al senso di continuità e speranza nel futuro.
E come non citare la sua filosofia sulla mentalità totalitaria che trasuda dalla squisita parabola dell'Elefante del Visir? La vendetta non è altro che l'altra faccia dell'odio, veicolata dalla memoria e talvolta può persino colpire l'innocente, assumendo quindi le sembianze della maledizione!
Si può evincere una verità universale, per nulla patetica o romantica, che la morte è la condizione che racchiude in sé il misterioso destino di tutta l'umanità: “il male, la sventura, l'inquietudine fra gli uomini sono elementi stabili e costanti e nulla di tutto ciò può essere cambiato: ogni passo che facciamo ci porta verso la tomba”. Le generazioni scompaiono, gli uomini si riproducono e si ripetono vite simili le une alle altre, di cui si conserva a stento qualche flebile ricordo, qualche narrazione solo talvolta scritta, ma non si può dimenticare che la nuova vita deriva da un “miscuglio fra vecchio e nuovo”, pertanto la speranza non deve mai essere accantonata.
Questi sono in sintesi gli spunti di lettura e riflessione che ho potuto cogliere.
Andric ha “gettato un ponte” fra la mia cultura e la sua, fra il suo Paese ed il mio, fra il mio spirito occidentale e quello slavo.
Ha reso mia la sua convinzione che solo l'unità del suo Paese possa far prevalere, nonostante tutto, l'amore sull'odio, che attraverso il tempo trascorso e la storia di quei popoli, tanto diversi fra loro, siano comunque nati anche dei legami reciproci, la comprensione fra gli uni e gli altri, il buon senso, l'amore e la generosità.
E inevitabilmente mi chiedo cosa avrebbe provato e come avrebbe reagito Andric se avesse potuto vivere le tragiche vicissitudini avvenute proprio poco dopo la sua scomparsa.
Forse nemmeno avrebbe cercato di spiegare come, sia da una parte che dall'altra, l'odio abbia potuto a tal punto prevalere sull'amore, la limitatezza dell'animo umano sulla generosità e come il male proveniente da chissà dove, dal passato o dalla storia, abbia potuto rivoltarsi contro il suo stesso buon senso a discapito di ogni possibile comprensione.
Ma probabilmente, e questo è il messaggio che vorrei ricevere, preferirebbe sperare ancora e continuare a “donarci ponti”.